Maradona è morto, Dio forse no.

Affido al blog i pochi pensieri lucidi che mi sono rimasti in questa notte strana. Mi sento tramortito, come se fossi stato malmenato nello stomaco e in faccia da una quindicina di persone. Credo che questo sentimento ce l’abbia anche la maggior parte della gente che ha vissuto l’epoca di Diego Armando Maradona a Napoli.

Maradona è morto, ma tra tre giorni non resusciterà. Non perché non è un Dio, ma perché lui era già resuscitato anni fa, dopo la disintossicazione. Sentirgli dire che aveva compreso ciò che la droga gli aveva tolto, la gioia di abbracciare le sue figlie, di vederle crescere, comprendere che non si può tornare indietro nel tempo, ma si può solo sentirsi in colpa e per questo chiedere scusa per il male procurato, tutto ciò era stata la sua rinascita. Non si può resuscitare due volte.

Nel film documentario di Emir Kusturica, parlando della sua dipendenza, della sua malattia, con un senso di amarezza che evidenziava il suo essersi reso conto del male procurato, affermava:

“Pensa a quanto sarei potuto essere grande se non avessi preso la cocaina!”

Non riesco a parlare, se solo ci provo singhiozzo. Mi ricordo che fa bene piangere, fa sentire uomini. Riesco, fortunatamente, a scrivere. È una strana sensazione, come se fosse morta una persona di famiglia. Con Maradona se ne va gran parte della gioventù della mia generazione. Quella generazione che sentiva forte il senso di riscatto di un popolo, che sentiva che anche partendo da una favelas era possibile non solo combattere contro il “sistema”, ma addirittura sconfiggerlo.

Diego Maradona aveva scelto di giocare nel Boca Juniors, la squadra più povera del campionato argentino non certo nel River Plate, aveva scelto Barcellona non il Real Madrid, aveva scelto Napoli non la Juventus.

Era un capo popolo, un brigante, un Che Guevara, un rivoluzionario che era venuto a Napoli per portare la sua rivoluzione contro il sistema calcio che già all’epoca lui definiva marcio. E quella parte sporca, che nulla aveva a che fare con il calcio giocato, gli si scagliò contro con tutta la forza. Maradona era un leader in tutti i sensi. Un leader con i compagni di squadra, un leader dentro e fuori dal campo. Era anche un leader politico in tutti i sensi. Un po’ come successe a Marco Pantani. Il sistema non poteva sopportare di essere stato sfidato e battuto da un uomo venuto dal nulla. Alla lunga ha vinto lui, che aveva definito Blatter un mafioso e Michel Platinì un suo complice.

Se ne stanno dicendo tante di cose in questi momenti, i ricordi di 30 anni di Maradona sono tanti e tutti intensi. Quelli che mi vengono al momento sono questi.

10 maggio 1987. Avevo ascoltato la radiocronaca della partita e non riuscivo più a contenere la gioia per aver vinto lo scudetto. Andavo avanti e indietro per casa saltellando come un capriolo imbizzarrito. Mi affacciai dal terrazzo dei miei genitori ai Colli Aminei e vidi un fiume di persone che si riversava nelle strade. Decisi di scendere anche io. Feci Colli Aminei, tondo di Capodimonte, corso Amedeo di Savoia, via S. Teresa degli scalzi, via Medina, via Toledo, piazza Trieste e Trento. Un’unica strada dritta dalla collina fino al mare. Ad ogni metro l’agglomerato di persone aumentava, sembrava la piena di un fiume che si riempie dagli affluenti sempre più ingrossati, dai vicoli laterali si aggiungevano sconosciuti che si abbracciavano e cantavano al coro di quelli che erano già sulla via principale. Quando giunsi infine a piazza del Plebiscito era ormai chiaro che chiunque, anche chi non si era mai interessato al calcio, fosse in strada a festeggiare. Masaniello aveva vinto.

21 giugno 1994. Argentina Grecia. Mondiali di calcio in USA. Ricordo il volto di Maradona dopo aver segnato un gol contro la Grecia, un primo piano che sprigiona tutta la rabbia accumulata da chi sente di aver subito un torto e sente di poter dimostrare di essere ancora una volta superiore a tutti. Ma questa è un’altra triste storia.

Un regalo di compleanno

30 ottobre 2009. È la data di nascita di Diego Armando Maradona, ma per uno strano caso del destino anche quella di mio figlio. Il giorno dopo, il 31 ottobre 2009, il Napoli sconfiggerà la Juventus allo Stadium per 3 a 2. Quella partita viene ricordata da Raffaele Auriemma nel libro “Seppelliteci qui“. Oggi, ricordo a mio figlio quanto sia stato importante Maradona per Napoli e per i Napoletani, perché lui non si arrendeva mai. E il motivo per cui non bisogna mai arrendersi, mai rinnegare le proprie origini, che la sua storia deve farci da esempio, non la sua vita magari, è che ci deve far ragionare su come qualcuno proverà sempre a cancellare i nostri risultati, a sminuirli, ma noi non dobbiamo arrenderci mai, grazie all’esempio della sua storia non ci riusciranno mai. Maradona si era messo al servizio dei più deboli, era il più forte di tutti i tempi, ma aveva scelto di stare dalla loro parte.

24 febbraio 2020. Partita di calcetto di mio figlio. Gli avevo promesso che se avesse segnato avrei smesso di fumare. In realtà mi ci stavo già avvicinando all’idea e cercavo solo un pretesto per farlo, ma lo cercavo ormai da oltre un anno e non mi decidevo mai a smettere realmente. Lui ci aveva provato tutto l’inverno a segnare, ma vuoi per sfortuna e qualche palo di troppo, vuoi per la bravura degli avversari, non c’era riuscito fino ad allora. Invece, quel pomeriggio, durante l’ultima partita prima che il lockdown generale chiudesse ogni tipo di attività sportiva di gruppo, mio figlio segnò 2 gol. Ma sul primo gol mi è rimasto stampato come una fotografia il suo volto, quello della rabbia di chi voleva riscattarsi, quello di chi aveva aspettato troppo tempo prima di vedere realizzato il proprio sogno e nella mia mente si sovrappose l’immagine del gol di Diego contro la Grecia nei mondiali in USA del ’96. Indistinguibile l’uno dall’altro. Ho smesso di fumare quel giorno e non me ne pento.

Maradona è morto, Dio forse no.

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